La burrasca di oggi è un po’ diversa dal solito; invece che ripescare una parola caduta in disuso o raccontarvi la storia interessante di un termine che usiamo più spesso, questa settimana ci concentriamo non su una parola, ma su una lettera.
Sabrina ed io infatti qualche giorno fa stavamo ascoltando Jannacci 1 e ci siamo messe a discutere della lettera J e della sua origine. Perché quando studiamo l’alfabeto italiano non è presente? Perché la studiamo quando facciamo l’alfabeto inglese? Perché Jannacci si scrive con la J?
La risposta ovvia è che è una lettera straniera e che in italiano non viene usata: quindi non ha senso di esistere nel nostro alfabeto.
L’unico problema di questa risposta è che ha dato adito a una serie infinita di altre domande. Per esempio: cosa vuol dire lettera straniera?
Ma procediamo con più ordine.
La lettera J non è un’esclusiva inglese o francese che abbiamo ereditato tramite guerre o globalizzazione; la sua origine e il suo utilizzo è comune a tutte le lingue indoeuropee.
Letteralmente2, la lettera J non è altro che uno svolazzo della lettera I. Uno svolazzo è un ornamento tipografico, ovvero un abbellimento che veniva utilizzato o per bellezza o anche per impaginare un testo con delle giustificazioni: in questo caso si usano dei ghirigori all’inizio e alla fine delle righe in modo che siano tutte allineate verticalmente fra loro lungo i margini.
Quindi, la lettera J non è una lettera “straniera”: è una I con una gonnellina3.
Nel caso di questa specifica gonnellina potremmo dire che l’abito fa il monaco; dopo anni di I scritte con uno svolazzo, l’umanista Gian Giorgio Trissino propose nel 1524 l’utilizzo della grafia J come indicatore di una lettera diversa: non più una I con la gonna ma una lettera a sé stante.
Nella εpistola del Trissino de le lettere nuωvamente aggiunte ne la lingua Italiana, Gian Giorgio vuole risolvere un problema piuttosto annoso che secondo lui affligge la scrittura del volgare italiano: l’utilizzo della stessa lettera per suoni che in realtà sono diversi. La sua proposta riguarda per esempio la differenza tra le o chiuse4 , da scrivere con una o, e le o aperte, da scrivere con una ω.
La J, secondo il Trissino, doveva risolvere il problema della scrittura di quelle i che si trovano in alcune posizioni “critiche” all’interno delle parole e che vengono pronunciate con un’intensità che le rende delle semiconsonanti.
I casi specifici sono i seguenti:
Parole con tre suoni vocalici in fila tra cui una “i” atona: per esempio nella parola majuscolo.
Dittonghi all’inizio di parola: jeri, jodio, jato.
Nella formazione di plurali di parole il cui singolare termina con un dittongo “-io” atono: il plurale della parola vario è oggi accettato sia in forma vari che varii. Secondo il Trissino, andrebbe scritto varij.
Provate a pronunciare: sentite che quella i è un po’ pastosa? È un po’ come se steste quasi pronunciando una “gl”. Effettivamente questo uso della J persiste oggi proprio nella scrittura di quelle parole con la “gl” che vengono pronunciate più “scivolosamente” in alcuni dialetti: per esempio aglio che diventa ajo in romanesco.
Non tutte le proposte del Trissino vennero accolte, ma quella della J funzionava piuttosto bene, e, a differenza di altre lettere greche da lui proposte, era già una grafia che, bene o male, veniva utilizzata per scrivere le I anche se solo per riempire le righe. La lettera quindi iniziò a far parte dell’alfabeto italiano con questo ruolo e, se avete mai preso in mano un testo edito agli inizi del ‘900, avrete sicuramente trovato questa grafia utilizzata per le parole che avete letto sopra: jeri, varij, esempij…
La J però cadde in disuso proprio tra ‘800 e ‘900, e, fino al secondo dopoguerra, venne di nuovo considerata una semplice variante della I anche nei vocabolari. Sparì dalla circolazione per sufficiente tempo che, quando ritornò nelle nostre bocche grazie all’influenza dell’inglese, ci sembrò una lettera straniera, completamente nuova e con un suono ben diverso: più simile a una G che a una I con la gonnellina.
Entra quindi nei nostri vocabolari dopo la lettera I per poter categorizzare degli anglicismi importanti come jeans, jazz, jeep e così via.
Il motivo per cui in inglese la J ha un suono simile alla nostra G è un po’ troppo lungo da raccontare: la spiegazione breve è che per tutte le lingue indoeuropee la J era uno svolazzo della I, il cui uso si è poi evoluto per indicare dei suoni che esistevano nel parlato ma non nello scritto e che in qualche modo erano vicini ai suoni della I, della Y, della J e della G. In spagnolo la j è un’aspirazione sul palato (jalapeño), in francese è una g molto scivolosa (jour), in tedesco è una i un po’ pastosa, simile a come la intendevamo in italiano (Jahr).
E qui vi faccio la domanda importante: quando leggete J, che suono sentite nella testa?
Gei
i lunga
Molti di noi hanno imparato a chiamarla “i lunga” a scuola: proprio un retaggio della natura della J come una “variante della I”. Influenzati dall’inglese, abbiamo poi iniziato a chiamarla “gei”, e non sono neanche tanto sicura che oggi, a scuola, la si chiami ancora “i lunga”. Se avete notizie fresche di elementari, fatemi sapere nei commenti!
Comunque, non so ancora perché Jannacci si scriva con la J.
ahaha
o una sciarpa, o una coda, o un braccialetto, i capelli lunghi, quel che volete voi.
Una o aperta è quella della parola buòno. Una o chiusa è quella della parola bisógno. A seconda del vostro accento d’origine potreste non sentire differenza tra i suoni di queste due parole: vi consiglio di metterle nella buca di Google Translate e cliccare sul simbolo dell’audio per ascoltare la pronuncia standard.
Una tra le puntate più belle di sempre!
Utile per me quest'articolo, per capire i libri da Pirandello, dove spesso usava le parole con "j" (per esempio "nel bujo fitto")