Ciao pirata,
Oggi non parliamo di una parola difficile, ma dell’etimologia di una parola che gran parte di noi usa tutti i giorni.
La cultura del caffè è uno strano animale: poiché la caffeina è uno dei pochissimi psicoattivi che crea dipendenza che è globalmente accettata dal mondo laico e religioso1, nel mondo ci sono moltissime “culture del caffè” legate al consumo di questa bevanda che prendono vita e proliferano proprio perché la caffeina crea dipendenza e quindi, crea una nuova personalità a cui dare un nome.
La nostra cultura del caffè, quella italiana e conosciuta in tutto il mondo, è però un animale ancora più strano perché il caffè non è né una pianta endemica del nostro territorio, né una che però ci prolifera facilmente2. Il caffè, come chicco, non è assolutamente una cosa italiana.
Il modo in cui lo prepariamo in Italia però lo è: la classica caffettiera, simbolo e pilastro della maggior parte delle case dello stivale, è un’invenzione nostra3; la moka si chiama cafetera italiana in spagnolo e cafeteira italiana in portoghese perché effettivamente la sua nascita risale a meno di un secolo fa a opera di Alfonso Bialetti nel 19334 e quando fu esportata nel mondo fu venduta come un capolavoro di design e industria italiana e così è conosciuta all’estero.
Bialetti, nel creare la sua invenzione, ne intuì il potenziale virale e volle darle un nome che richiamasse un senso di bontà e “storicità”: la chiamò quindi come la specie di caffè più diffusa in Europa, la moca, una varietà di arabica proveniente dallo Yemen e che così era chiamata perché partiva per il mondo dal porto di al-Mukhā (المُخا); l’ aromatico caffè yemenita era quindi chiamato “il caffè di Moca/Mokha”, perché dal ‘400 al ‘700 il caffè consumato nel mondo occidentale proveniva dalle sue navi.
In questo periodo il chicco era ancora considerato un lusso, un’importazione il cui valore mercantile era simile a quello delle spezie e dei metalli, perché la compravendita e il trasporto avvenivano solo da quei paesi in cui il caffè era autoctono o storicamente coltivato. La pianta infatti è originaria dell’Etiopia, nello specifico dalla provincia di Kefa (ኬፋ), da cui prende il nome, e da qui la sua coltivazione e consumo si diffusero facilmente in Africa orientale e nel mondo arabo e proprio in Yemen si hanno le prime testimonianze scritte dell’esistenza di una caffetteria nei monasteri dei Sufi.
La crescente domanda di caffè in Europa durante il ‘700 fece sì che i paesi europei che possedevano colonie in altre zone del mondo cercassero di acquisire un vantaggio commerciale esportando la coltivazione della pianta in paesi che non fossero in Africa orientale o Medio Oriente; ci riuscirono gli olandesi, che poterono contare su una coincidenza: Pieter van den Broecke, un commerciante del ‘600, durante un viaggio a Mokha nel 1614 aveva apprezzato moltissimo la bevanda e ne aveva trasportato con successo una pianta fino ad Anversa per coltivarla per diletto personale nel proprio giardino. Questo fece sì che, un secolo dopo, durante la corsa al caffè l’Olanda poté contare su una talea di caffè che si era già adattata alla coltivazione in serra e quindi era più robusta e facilmente trasportabile.
Gli olandesi iniziarono a coltivare il caffè a Ceylon, poi nel resto dell’India, che però abbandonarono per Giava, e divennero i principali fornitori di caffè dell’Europa. Furono i francesi i primi a portarlo dall’altra parte dell’oceano Atlantico, coltivandolo ad Haiti, da dove si diffuse in Giamaica, a Cuba e nel resto del Sud America.5
Mokha, quindi, dopo trecento anni di fioritura come fonte di caffeina per il mondo intero, venne schiacciata dalla competizione globale e venne “declassata” a esportatore di una varietà di nicchia, comunque considerata migliore. La sua storia è però ricordata nelle nostre caffettiere Bialetti, che da lei prendono il nome.
So che alcuni di voi stanno pensando all’alcol, che però non è legale ovunque e varie religioni lo proibiscono: la caffeina a grandi linee viene tollerata da tutti.
Come invece il pomodoro, un altro simbolo di italianità che abbiamo portato dal continente americano nel ‘500 ma che abbiamo iniziato a capire, coltivare e cucinare solo nel ‘700.
Fun fact, quando andai in vacanza studio in Inghilterra da adolescente ci consigliarono di portare un piccolo regalo per ringraziare la famiglia ospitante ma ci dissero tassativamente di non portare dei dolci perché l’unica torta “tipica” della mia zona agli inglesi non sarebbe piaciuta. Portammo quindi una mokina Bialetti, certo non per convertirli dal tè al caffè ma magari per dar loro un aggeggio divertente da mostrare agli amici; ma non piacque neanche quella.
La macchina da espresso da bar è più vecchia ma non poi così tanto: fu presentata dal torinese Angelo Moriondo all’Expo generale italiana nel 1884 a Torino.
La storia del caffè, come la storia della maggior parte delle coltivazioni di massa, è una storia sanguinosa e coloniale, che coinvolge lo sfruttamento massiccio di territori e popolazioni, è stata motivo di rivolte e soppressioni e tutt’ora è causa di brutalità e complicate relazioni internazionali. Non potrei parlare di tutti gli aspetti in una sola burrasca, perché si tratta davvero della storia di moltissimi paesi dell’Africa, del Sud America e del Sud Est Asiatico, ma vi invito a leggere la pagina Wikipedia dedicata per approfondire. Anche all’inizio, quando vi ho parlato di “cultura del caffè” sono stata imprecisa: molte culture del caffè nel mondo sono in realtà “popoli del caffè”, ovvero culture che sono nate liberando la propria caffeicultura dalla schiavitù.
È sempre un piacere leggere le tue burrasche, Capitano 😉
Grazie! Da una caffeinomane incallita che ha letto la burrasca bevendo un buon caffè!