Ciao pirata,
Poiché settimana scorsa ero stata così brava da riuscire a scrivere la burrasca con quattro giorni di anticipo, la burrasca di oggi la sto scrivendo di lunedì sera, con l’acqua alla gola e il sonno nel cuore.
Quindi, ciancio alle bande.
La parola di oggi è vestigia.
In realtà se dovessi essere precisa dovrei dire che la parola di oggi è vestigio, al singolare, ma nessuno mi chiede di essere precisa quindi faccio quello che voglio. Scrivo vestigia al plurale perché lo usiamo più spesso così, in delle formule atrofizzate, delle frasi fatte che diciamo sapendo cosa vogliono dire ma non ragionandoci troppo.
Per esempio, le vestigia del tempo che fu. O le vestigia romane.
Però, ecco, non è che vestigio da solo non si possa usare, quindi magari parto da quello e impariamo davvero una parola nuova da infilare nelle nostre conversazioni.
Il termine vestigio viene dal latino vestigium, che significa “orma” oppure “traccia”. Il termine è più figurato che letterale: più che indicare un’impronta lasciata da una zampa nel terreno, indica la pista da seguire per trovare qualcosa, l’indizio, il segno che va seguito. Lo stesso vestigium latino viene dal verbo vestigare, “seguire le tracce”, che passa in italiano come “investigare”, che ha un significato più ampio - per noi non è soltanto il seguire una traccia ma indica tutta l’attività di svelare un mistero.
Un vestigio quindi è la traccia di qualcosa, il segno di un passaggio: tutte quelle cose che tracciano nella nostra mentre l’esistenza di qualcosa che non stiamo vedendo in questo momento.
La sfumatura più interessante - e romantica - dietro la parola vestigia è che sottintende che ciò di cui è traccia in realtà è sparito. Seguendo la pista delle vestigia non troveremo l’animale che ha causato quell’impronta, ma piuttosto un suo fossile. Sono vestigia di un popolo estinto tutte quelle cose che hanno lasciato ai posteri (manufatti, letteratura, linguaggi, strade…); ma il ramen non è vestigio dei giapponesi anche se mangiandolo viene in mente il Giappone. Il Giappone infatti esiste ancora.1
Si chiamano vestigia anche tutte quelle parti del nostro corpo che non ci servono più ma che ci rammentano un corpo antenato: potreste, per esempio, aver studiato che il coccige è un elemento vestigiale dell’anatomia umana, perché con l’evoluzione abbiamo perso la coda delle scimmie ma il coccige è rimasto lì, vestigio dei primati che eravamo.2 In realtà pare che il coccige abbia una funzione anche adesso, e sia connesso alla mobilità di alcuni muscoli dei glutei3, quindi non è l’esempio migliore di vestigio, ma gli altri sono un po’ difficili quindi tengo questo così ci capiamo.4
Ho ripreso in mano il dizionario di radici indoeuropee per capire da che mondo venisse la parola “vestigio”; ero convinta, come credo molti di voi, che appartenesse alla sfera degli abiti e della vestizione: “vestito” infatti viene dalla radice indoeuropea wes- che significa esattamente “vestire”.
La cosa si sarebbe sposata molto bene con il suo significato metaforico attuale: un segno, un ricordo di qualcosa che non c’è, come un’apparenza o un “vestito” che si dà a una memoria per renderla più tangibile. Aveva però molto meno senso con il suo significato originale di “traccia”.
Vestigio infatti non ha niente a che fare con i vestiti. Non si sa bene da dove venga, ma un’ipotesi probabile è che venga dalla radice steigʰ- camminare; da qui è molto più semplice capire come si passa da “camminare” a “orma”, poi a “traccia” e quindi a “ricordo”.
Le vestigia sono quindi orme figurate, i segni sul terreno del passaggio di qualcosa o qualcuno che è stato dove siamo noi ora, ma che ora non c’è più.
Vi è mai capitato di avere un momento di sconvolgimento per questa ragione? Una volta stavo aspettando l’autobus e alla fermata si è fermato un pullman turistico da cui è scesa una scolaresca spagnola con guida annessa. In mezzo alla baraonda dei ragazzi che si spargevano per la strada, ho sentito la guida dire “State attenti! Questa è una strada romana!”
E io boh, la calpestavo tutti i giorni.
Nel caso non lo sapeste.
Del tipo di primati che eravamo. Siamo ancora un primate, solo con un’altra faccia.
Tra cui l’ano. Ve lo metto nelle note così vi sconvolgete solo in seconda battuta.
Io però non ho così tanta paura delle cose difficili, quindi ve li metto qui:
L'epooforon, chiamato anche organo di Rosenmüller, è un residuo di epoca embrionale del tubulo mesonefrico che si ritrova nell'anatomia femminile.
La plica semilunare, ovvero quel pezzetto di pelle che si può vedere nell’angolo interno dell’occhio tra l’epidermide e il bulbo e che negli esseri umani non fa assolutamente niente ma è un vestigio di quando eravamo anfibi e potevamo coprire il bulbo oculare con una palpebra semitrasparente che proteggeva gli occhi dall’acqua ma permetteva di vedere. Anfibi, rettili e altri animali ce l’hanno ancora.
La pelle d’oca che viene quando siamo spaventati è un vestigio di quando eravamo coperti completamente di peli: il drizzarsi dei peli sulla pelle ci faceva apparire più grandi e quindi più minacciosi di fronte all’eventuale predatore di cui eravamo spaventati.