Ciao pirata,
la puntata di oggi non è proprio su una parola ma su più parole e su un argomento che mi affascina tantissimo. Recuperate una gomena e assicuratevi all’albero maestro perché questa burrasca è bella intensa.1
Potrebbe esservi capitato, se bazzicate il web anglofono e il web dedicato alle curiosità di linguistica spicciola, di imbattervi in questa frase: “wine-dark sea”.
La frase si traduce come “mare [di colore] vino scuro”, o anche “mare scuro come il vino”; io l’ho incontrata per la prima volta in post su Tumblr nel 2014, anno di gloria di questa tremenda piattaforma di microblogging, e mi ci sono soffermata perché ho sempre trovato interessante leggere di come gli anglofoni si rapportano all’antichità greca e romana rispetto a noi che la sentiamo molto più vicina.2
Non avevo mai sentito parlare di questo epiteto omerico; pur avendo studiato Iliade e Odissea a scuola, non è uno dei temi su cui mi era stato mai chiesto di soffermarmi. Nell’originale si tratta dell’epiteto oînops póntos (οἶνοψ πόντος), dove oînops viene da oînos (οἶνος), vino, e óps (ὄψ), occhio/volto/aspetto, mentre póntos indica il mare, nello specifico il mare aperto.
Quindi, nessun problema per Achille pié veloce, Omero multiforme, Atena dalle bianche braccia, Ettore domatore di cavalli, ma questo mare scuro come il vino non mi era pervenuto. Eppure questo epiteto nel mondo anglofono viene molto studiato, tanto che la sua storia periodicamente viene ripresa da qualche post online come una curiosità interessante e, se appunto frequentate certe specifiche pagine del web, è diventata una frase fatta, un qualcosa che conoscono tutti.
Perché però questo oînops póntos (οἶνοψ πόντος) viene così studiato nel mondo anglofono? Il motivo è da ricercare nell’evoluzione di una materia che apparentemente non c’entra nulla, ovvero la psicolinguistica, disciplina che studia i fattori psicologici e neurobiologici che stanno alla base dell'acquisizione, della comprensione e dell'utilizzo del linguaggio negli esseri umani.
Uno dei cardini della psicolinguistica a livello storico è il rapporto tra pensiero e linguaggio e il tema della relatività linguistica, ovvero se il linguaggio che parliamo influenza il nostro modo di pensare, e se sia in grado di influenzare la nostra visione del mondo oppure addirittura la nostra percezione; se la mia lingua prevede delle parole per un certo concetto ma non per un altro, la mia visione e la mia percezione delle cose saranno spostati verso il concetto di cui posso parlare rispetto a quello che è, letteralmente, per me indescrivibile?
Il tema della percezione è particolarmente spinoso: è possibile che i nostri cinque sensi, un fattore biologico, siano influenzati dalla nostra lingua? Due nasi biologicamente identici ma che parlano due lingue diverse percepiscono diversamente lo stesso odore solo perché le due lingue hanno modi diversi di definire quell’odore?
L’unico senso davvero “testabile” è la vista, in particolare la visione del colore perché possiede caratteristiche linguistiche e biologiche più facilmente misurabili.
Facciamo assieme un salto indietro nel tempo, ben prima della nascita della psicolinguistica: nel 1858 lo statista britannico William Gladstone, mentre faceva anche le sue cose da statista, legge i poemi omerici e si accorge di una cosa particolarissima: da nessuna parte nell’opera di Omero si nomina il colore blu.
Ora, potreste pensare che è una cosa assurda da notare, eppure questa intuizione, delineata nel suo Studies on Homer and the Homeric Age, scoperchiò un vaso di Pandora nel mondo accademico per il secolo successivo.
Com’è possibile che in due poemi le cui sorti dipendono così tanto dal mare e dal cielo non venga mai menzionato il colore blu? Gladstone concluse il suo libro dicendo che i Greci Antichi erano tutti daltonici, cosa che non ha nessun fondamento scientifico e fa davvero molto ridere; altri cercarono di spiegare che, poiché era uso dei Greci mescolare il vino con l’acqua prima di berlo, e l’acqua della regione del Peloponneso è molto alcalina, la reazione chimica tra acqua alcalina e vino creasse un colore più scuro; altri ancora che il paragone tra il mare in burrasca e il vino che agita gli animi sia un escamotage poetico.
Quest’ultima spiegazione non è poi così brutta se non fosse per due problemi importanti: 1) Omero usa oînops (οἶνοψ) anche per descrivere dei buoi non ubriachi e 2) il problema dell’assenza di una parola specifica per il colore blu è diffuso in tutte le lingue antiche.
Dal problema dell’oînops póntos (οἶνοψ πόντος) e delle lingue antiche prive di blu nasce la ricerca di Brent Berlin and Paul Kay dell’Università di Berkeley, Basic Color Terms: Their Universality and Evolution (1969).
I due linguisti chiesero a 20 parlanti bilingui di 20 lingue diverse di guardare uno spettro del colore e di dare un nome "base” ai colori che vedevano nella loro lingua, definendo come nome “base” una categoria univoca come bianco, rosso, blu, giallo, ed escludendo categorie come “salmone”, “turchese”, “verdino” e simili.
Berlin e Kay scoprirono in questo modo che, se una lingua ha solo tre nomi “base” per i colori sono sempre gli stessi: Bianco/chiaro, nero/scuro, rosso; se ne ha quattro/cinque, allora nomina anche il verde o il giallo; se ne ha sei, allora è finalmente in grado di nominare anche il blu.
Questo significa che nell’evoluzione di una lingua i colori non vengono nominati subito tutti ma che esistono delle fasi; quindi, il greco antico dell’Odissea semplicemente non era ancora arrivato alla fase dei sei colori, e per questo il mare era color del vino, scuro e ombroso.
La teoria di Berlin e Kay non è fissa nella pietra, è stata contestata e rivista dagli stessi due autori: la critica principale è che i presupposti linguistici non sono universali perché in alcuni linguaggi del mondo le parole per definire i colori non sono astratte, ma riprese direttamente da degli oggetti, come il rosso della lingua Yele della Papua Nuova Guinea, mtyemtye, letteralmente “pappagallopappagallo”, e in altri linguaggi i colori sono chiamati con delle sensazioni/emozioni e non con dei denominatori specifici. Tuttavia i loro test sono stati ripetuti anche con altre metodologie e hanno confermato una verità di base: se una lingua ha pochi termini colore, questi sono sempre nero/bianco/rosso.
Ma perché? Com’è possibile che i Greci antichi, circondati da mare e cielo, abbiano impiegato così tanto a dare un nome al loro colore? Ma non solo i Greci: per quale ragione dei colori di cui siamo circondati nel paesaggio (verde, marrone) impiegano così tanto a comparire nella storia del linguaggio?
La verità probabilmente sta nell’uso: denominiamo ciò che ci serve denominare; è davvero necessario sapere che l’erba è verde e che il cielo è blu? Basta dire “erba” e “cielo”, e nella nostra mente si forma un’idea condivisa di ciò a cui ci stiamo riferendo. Ma dobbiamo comunicarci che la notte è scura e il giorno è chiaro, e il tempo è uno dei motori linguistici più importanti che ci siano - e una volta che abbiamo i termini per “scuro” e “chiaro” li possiamo usare per bianco e nero; e poi ci serve il colore del pericolo, la segnalazione, il colore del fuoco e del sangue, l’avvertimento: ci serve il rosso. Il resto verrà poi.
Vi è piaciuta questa burrasca sul mare color del vino? Fatemelo sapere perché ho una mezza idea di scrivere un’altra puntata sempre sui nomi per il colore blu e farne una miniserie ma non vorrei essere l’unica persona ossessionata da questo tema 😊🏴☠️
Vi lascio un veloce riferimento a questa scena del Pianeta del Tesoro - che, come i più assidui tra voi sapranno, è il mio film Disney preferito - così che sappiate esattamente a cosa mi sto riferendo. Ci sono degli spoiler ma il film è uscito nel 2002, non mi sento troppo in colpa.
È interessante per due aspetti: prima di tutto trovo affascinanti gli studi sul greco e sul latino fatti da parlanti di lingue non romanze perché il rapporto tra studioso e lingua studiata è molto meno “carnale” e i risultati che ne conseguono hanno la potenzialità di essere diversi, ricchi di un pensiero laterale che non sempre è possibile quando il parlante di lingua romanza legge nel latino e nel greco delle parole così vicine alla propria lingua madre, un po’ come nel caso dell’epiteto di cui parliamo oggi; e poi trovo divertentissimo come gli americani nello specifico vivano l’antichità greca e latina come un intoccabile rapimento mistico e sensuale e noi italiani giustamente non riusciamo a scavare una linea di metropolitana senza inciampare nella latrina di un qualsiasi gneo pompeo.
Adesso mi è venuta voglia di leggere un manuale di psicolinguistica
Bellissima puntata, anch'io sono affascinato e attratto da psicolinguistica e percezione dei colori: per me è un sì, trasforma questa burrasca in una miniserie!