Parole difficili - acribia
Ciao pirata,
la parola di oggi è perfetta per la nostra newsletter; è una parola davvero poco usata ma con un significato tale per cui si presta bene a entrare nel nostro vocabolario più quotidiano.
La parola di oggi infatti significa “precisione, meticolosità”; potremmo usarla per parlare di un compito bene svolto o di un’indagine approfondita o in generale qualsiasi cosa di cui vogliamo elogiare l’attenzione al dettaglio e all’esattezza.
Parliamo infatti della parola acribia, ma facciamo attenzione a pronunciarla bene: si dice acribìa, e non acrìbia come potrebbe sembrare più ovvio1.
Il termine viene dal greco, e fin qui potrebbe essere un viaggio facile da intraprendere assieme; l’etimologia però è un po’ più sorprendente di quel che sembra.
Viene infatti dal sostantivo akrìbeia (ἀκρῑ́βειᾰ), che ha esattamente lo stesso significato già in greco antico; come si sia formata questa parola però, è più un mistero.
Gli studiosi sono abbastanza d’accordo nel credere che la prima parte di questo termine venga dall’aggettivo ákros (ἄκρος), che significa affilato, appuntito: per esempio è l’aggettivo che compone la parola acropoli, città alta nel senso di “città sulla cima, sulla punta”, o anche la parola Trinacria, ovvero “tre promontori”. Questo aggettivo però è in grado anche di assumere un significato più astratto: una cosa appuntita e affilata è anche tagliente, come può essere anche un ingegno o un ragionamento, che quindi diventa “preciso”, in grado di discernere tra la complessità come un coltello divide in parti.
La seconda parte del sostantivo akrìbeia (ἀκρῑ́βειᾰ) è più complessa: alcuni la fanno risalire al verbo éibō (εἴβω), versare, far cadere; altri sostengono che venga dal verbo bàino (βαίνω), andare, un verbo molto usato e perciò molto generico che in alcune occasioni potrebbe anche essere tradotto con il verbo “essere”, esattamente come il nostro verbo “andare” quando gli chef in televisione ti accompagnano passo per passo nella ricetta dicendo “andiamo ad aggiungere il parmigiano”, “andiamo a soffriggere la cipolla” e tu pensi che non stai andando da nessuna parte ma va bene così.
Perciò l’acribia è la caratteristica dell’essere tagliente, appuntito, con una sfumatura astratta che riguarda il discernimento, ma anche l’organizzazione del pensiero diviso - “tagliato” - in parti chiare e ben comprensibili.
È una parola poco usata in italiano perché noi la consideriamo un termine tecnico relativo al mondo della filologia e degli studi storici, ambiti in cui designa il necessario rigore metodologico. È relegata a questi campi perché noi italiani non la deriviamo direttamente dal greco ma l’abbiamo presa in prestito nell’800 dai tedeschi, a cui tendenzialmente la filologia piace un sacco, che la utilizzavano proprio per indicare la precisione e il metodo scientifico di questa materia; tecnicamente quindi l’acribia italiana non viene dall’akrìbeia greca ma dall’Akribie tedesca, che però viene dall’akrìbeia greca e quindi per proprietà transitiva siamo contenti tutti.
È anche per questo motivo se diciamo acribìa e non acrìbia. Se avete notato, infatti, il termine greco non presenta accento sull’ultima sillaba, ma sulla stessa iota che poi diventa la nostra penultima sillaba (ἀκρῑ́βειᾰ - acrìbia). Il nostro problema infatti sono i tedeschi, che dicono Akribìe e che quindi influenzano la nostra pronuncia perché è da loro che prendiamo in prestito questo termine.
Sapete che vi dico però? Che se usiamo il sostantivo acribia fuori dal contesto filologico, possiamo pure lasciar perdere i tedeschi. Esportiamo acribia nel linguaggio di tutti i giorni e diciamolo alla greca, creiamo una nuova convenzione tra di noi e non avremo fatto troppo male.
Magari sembra più ovvio solo a me, ma dato che la maggior parte delle parole italiane sono piane, ovvero hanno l’accento sulla penultima sillaba, forse non sono matta.