Mi sono sempre piaciute le parole, tutte quante. Mi affascinano tre cose in particolare:
L’idea che l’essere umano usi le parole come sistema - nel senso di archivio ordinato - e come mezzo - nel senso di strumento preciso ma estremamente malleabile - per descrivere il mondo.
L’interconnessione tra i linguaggi: le etimologie dalle lingue morte nelle lingue vive; le parentele tra le lingue romanze; capire una parola tedesca perché se ne conosce una in inglese; l’esistenza stessa dello spanglish.
Il fatto che i linguaggi, forti di almeno un millennio di perfezionamento, dispongano di un vocabolario amplissimo e precisissimo per raccontare l’esperienza umana e che, proprio per questo, i vari linguaggi siano ricchi di alcune aree semantiche e poveri di altre: l’italiano e i 500 modi per categorizzare la pasta a seconda della sua forma; l’eskimo e i suoi 50 termini per indicare diversi tipi di neve; il kilivila delle isole Trobriand, che vede un centinaio di parole per parlare dell’igname*.
Questi vocabolari sono tanto ampi quanto poco usati.
Nel 2011** la Treccani online raccontava i numeri del vocabolario base della lingua italiana - ovvero strettamente le parole che ti servono per sopravvivere in una conversazione leggera: questo conterebbe circa 2000 parole; un italiano di istruzione medio-alta avrebbe un bagaglio di circa 47.000 parole; la base dati dell’enciclopedia della lingua italiana ne conterebbe 427.000.
Quindi 427.000-47.000= 380.000 parole che non conosciamo.
Ora, non so voi, ma io impazzisco all’idea di avere a disposizione 380.000 parole da scoprire. Sarà anche la quarantena eh. Sarà anche che so che non imparerò il francese in due mesi, quindi tanto vale potenziare la lingua che già so.
Quindi, non so se il futuro della burrasca è essere solo un modo per scoprire parole nuove, ma sicuramente potete aspettarvi tante parole nuove nelle prossime burrasche.
Per esempio:
Onusto (agg): questa parola mi fa pensare a “vetusto”, anche se fa solo rima. Significa pieno, carico di qualcosa, di un peso, soprattutto in senso figurato. Deriva dalla stessa radice di “onere” e “oneroso”, cioè qualcosa che ci pesa addosso, come una cesta di frutta o un carico di lavoro o la morale kantiana.
La cosa che mi piace di più di “onusto” è che è un aggettivo per indicare non il carico pesante, ma la persona carica della cosa. Perché quello di cui ci carichiamo ci cambia: non siamo più una persona “a tabula rasa”, ma una persona che ha bisogno di un aggettivo che descriva che siamo cambiati, che quel carico ci rende “onusti”.
Portare un peso su se stessi non è un’azione che ci lascia immutati; sia che sia un peso positivo o che sia negativo, sia che sia un peso costante, che ci portiamo dietro tutti i giorni, sia che sia stato un peso che abbiamo portato e riposto da qualche parte nel passato, portare un peso ci cambia.
Il mio augurio è che, quando tutto questo passerà, noi siamo tutti onusti di cose belle.
*un tubero simile alle patate dolci.
**che mi rendo conto siano ormai 9 anni fa, ma anche se in 9 anni tutti gli italiani avessero imparato il 10% in più su 380000 parole sconosciute o disimparato il 10% in meno su 47000 parole conosciute, io comunque oggi sarei qui a farvi tutti i disegnini, quindi non cambia una fava.